lunedì 9 novembre 2009

NANDO SANVITO AI NOSTRI STUDENTI: "LO SPORT RIVELA COM'E' FATTO L'UOMO"

«Il cancro è stata la cosa più bella che mi potesse capitare: senza il cancro non avrei mai vinto il Tour». Sono parole del ciclista Lance Armstrong, ripetute questa mattina da Nando Sanvito, che ha incontrato gli studenti del “Pantani”: per due ore il noto giornalista di Mediaset ha a dir poco incantato gli alunni delle classi terze e quarte raccontando significative storie di sport dalle quali trarre lezioni di vita.
«La forza dell’imprevisto»: questo il titolo delle vicende presentate da Sanvito attraverso alcuni filmati. Quell’imprevisto, il cancro, che ha permesso di vincere ben sette edizioni del Tour al campione texano, il quale rappresenta anche «l’emblema di com’è fatto l’uomo: capace delle imprese più nobili ed eroiche e delle azioni più abiette e schifose, che per fortuna non sono l’ultima parola su di noi». Fu Armstrong, infatti, il corridore che nel 1995 indicò il cielo tagliando il traguardo per ricordare il compagno di squadra Fabio Casartelli tragicamente morto in discesa pochi giorni prima, ma fu sempre lui a umiliare, al Tour del 2004, l’italiano Filippo Simeoni, “reo” di aver coinvolto in un’inchiesta sul doping «il medico al quale si riferiva l’elite del ciclismo mondiale».

L’imprevisto è anche ciò che ha sconvolto i piani di partite già decise a tavolino, come hanno dimostrato in modo clamoroso le registrazioni proiettate dal giornalista. Ma che ha anche consentito al grande calcio di ritrovare un ragazzo bresciano scappato di casa: «Francesco torna», si leggeva infatti sulla maglietta esibita dal difensore Daniele Adani sotto i colori nerazzurri subito dopo il goal segnato al ’95 nella semifinale di Coppa Italia del 2004. Una rete che portò la partita ai supplementari, spingendo il 16enne interista, che assisteva al match della sua squadra del cuore nel bar della stazione ferroviaria di Genova, a farsi identificare. Solo l’ex calciatore del Brescia, tra i giocatori in campo quella sera, aveva indossato una delle magliette lasciate negli spogliatoi dal padre, disperato, di Francesco. E proprio lui, in zona Cesarini, realizzò quel goal, l’ottavo della sua carriera: da allora non ne ha più segnato uno. In quel minuto, fra l’altro, i dati dell’Auditel toccarono un picco di 13 milioni di spettatori, «contro ogni regola del marketing». Insomma, tutto questo «non poteva essere casuale», ma solo opera di «una regia dall’alto: la vita è una drammatica partita a ping-pong tra la nostra libertà e questa Regia con la “R” maiuscola».
In questa relazione, ha continuato Sanvito, si inserisce anche la vittoria del Brasile contro la Germania alla finale mondiale del 2002, quando nello stadio giapponese calò il silenzio nel momento in cui l’intera delegazione brasiliana si inginocchiò per recitare il Padre nostro: «un gesto di gratitudine» che, ha sottolineato il giornalista, non può non colpire in «uomini arrivati al “clou” della loro carriera». Non è casuale, infatti, il fatto che «più gli atleti hanno una coscienza religiosa, più assumono un atteggiamento responsabile: molti di loro hanno dato vita a fondazioni per aiutare i bambini delle favelas».
Lo sport è metafora della vita anche nella sconfitta, della quale «ciascuno di noi fa quotidianamente esperienza». Ne è la dimostrazione la commovente storia dell’atleta nigeriano Francis Obikwelu, velocista in pista per il Portogallo dopo essere stato costretto a fuggire dall’Africa e aver lavorato come muratore. Ritornato a correre, arrivò secondo agli Europei del 2002 dietro l’inglese Dwain Chambers poi squalificato per doping. Fu quindi colpito da un infortunio al ginocchio che sembrò la sua fine: guarito, conquistò l’argento alle Olimpiadi del 2004, dietro l’americano Justin Gutlin, anche questo in seguito squalificato per 8 anni per uso di sostanze dopanti. In seguito medaglia d’oro nei 100 e 200 metri agli Europei del 2006, segue ora una fondazione a favore dei bambini nigeriani: per dirla in breve, «uno che si considerava sconfitto dalla vita è tornato a essere protagonista». Simile alla sua la vicenda di Sandro Gamba, allenatore della nazionale di basket campione d’Europa nel 1983: diventò una stella dello sport utilizzando la pallacanestro come terapia riabilitativa per la mano, che rischiò di essere amputata, spappolata dall’esplosione di un ordigno a Milano il 25 aprile 1945. Sviluppò quindi un’abilità incredibile con entrambe le mani nel palleggio, spiazzando gli avversari: è così che «una disgrazia, invece di una condanna, diventa il miglior alleato per il tuo successo». Lo stesso vale per Ezio Tricoli, che fondò la prestigiosa scuola di scherma di Jesi, quella della campionessa olimpica Valentina Vezzali, dopo aver imparato questo sport nel lager dove fu rinchiuso per 7 anni.

E poi la leggendaria impresa di Dorando Pietri (immortalato qui sopra nella foto più celebre della storia dello sport) alle Olimpiadi di Londra del 1908: squalificato dopo aver tagliato per primo il traguardo sorretto dagli organizzatori, fu premiato dalla regina Alessandra e invitato poi negli Stati Uniti dagli italoamericani per una rivincita contro il vincitore olimpico Jhonny Hayes, che Pietri sconfisse, aggiudicandosi nei mesi successivi una serie incredibile di corse e maratone e diventando l’atleta più ricco del tempo. Morale della favola: «Oggi nessuno si ricorda più di Hayes, mentre tutti ricordano Dorando Pietri: non c’è stata sconfitta più vittoriosa della sua». L’imprevisto ha giocato anche nell’incredibile impresa di Igor Cassina, che conquistò la medaglia d’oro ad Atene 2004 con uno spettacolare doppio salto mortale con avvitamento. Un esercizio che il ginnasta aveva inventato a 13 anni e poi abbandonato per la sua altezza, oltre un metro e 80: troppo per non rischiare di toccare la sbarra. Grazie all’insistenza del suo allenatore, Igor si convinse, però, a preparare l’esibizione per l’Olimpiade: quando il gran giorno arrivò, nel palazzetto scoppiò una lite per un voto assegnato dalla giuria in un’altra disciplina. Il clima ideale, ha osservato Sanvito, «per deconcentrare un atleta»: nelle ore prima della gara, infatti, Cassina provò quattro volte il movimento e quattro volte lo sbagliò. Al suo momento, invece, «l’ha fatto giusto»: segno che «dentro un rapporto educativo, come quello tra allenatore e atleta, riusciamo a superare persino i nostri stessi limiti fisici».
Filo conduttore di tutte queste storie è dunque l’imprevisto, definito dal giornalista come «ciò che illumina il previsto: della vita non siamo padroni». Una vita che «possiamo affrontare in due modi: o pensiamo che siamo noi a stabilire le regole, cadendo in depressione quando la realtà ci delude, oppure siamo umili e simpatetici con la realtà, che si rivela la nostra grande educatrice anche quando è apparentemente contro di noi». In questo caso, «l'esistenza sarà fonte di sorpresa, gratitudine e stupore: saremo innamorati della vita».










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